Iliana Borrillo
esperta d'arte
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Nebenräume – gli spazi dell’io

La parola tedesca Raum significa spazio, ma anche stanza, indica quindi luoghi sia aperti che chiusi, reali o immaginari, fisici o metafisici. Qualsiasi spazio implica comunque il concetto del confine, che a sua volta rimanda  a limitazioni se non a barriere, contro le quali sbattiamo, per caso oppure nel tentativo di valicarle. Implica, per altro verso, anche passaggi, aperture, ingressi e valichi.  E’ quindi lo spazio con i suoi limiti e le sue aperture a dettare/determinare la geometria dei nostri movimenti e, di conseguenza, anche delle nostre relazioni.  Sono le linee di intersezione e demarcazione, tangenti, parabole, curve e parallele a tracciare l’andatura dei nostri percorsi e a indicare   dei punti di riferimento indispensabili.

Nebenräume invece si riferisce a una specie di sottocategoria, a spazi adiacenti a quelli centrali, di solito costruiti dall’uomo per funzioni di carattere non ufficiale, ma non per questo meno importanti. Un Nebenraum non è dunque un luogo inteso per ricevere un pubblico giudicante; non è uno spazio di rappresentanza sociale dove si mostra o si ostenta un io spesso condizionato e a disagio  nel ruolo richiesto, bensì una stanza appartata, secondaria, ma pur sempre funzionale nella planimetria di un edificio. Un luogo che consente di abbassare la guardia, perché uno non viene né osservato né giudicato. Per questo motivo, lo scultore Peter Demetz considera i suoi Nebenräume degli spazi dell’io, stanze di raccoglimento e di riflessione, come suggeriscono i numerosi specchi presenti nella sua opera, dove siamo liberi da condizionamenti esterni, anche se questo non significa essere liberi da condizionamenti interiorizzati. Questi spazi possono essere abitati da soli o condivisi con amici e amanti come anche con degli sconosciuti, ai quali ci lega un’attività o un intento comune.
In breve, gli spazi adiacenti si sottraggono alla folla e allo sguardo della folla, ma è proprio là dove Peter Demetz conduce il nostro sguardo da spettatori curiosi, la cui naturale inclinazione ad essere indiscreti e invadenti viene frenata  da un intenso rigore formale, direi matematico, e dalla semplicità elegante del materiale impiegato. E cosa ci fa o lascia vedere?
Austere architetture aprono su spazi illuminati ad arte che ospitano l’essenziale e ben disciplinata coreografia della quotidianità relazionale di gente comune. Piccole teche, interamente in legno di tiglio naturale e prive di ogni abbellimento decorativo o consolatorio, espongono inquadrature tridimensionali  ad alto impatto drammatico e poetico:  persone che s’incontrano, si sorridono, si guardano, si osservano, si separano, si voltano le spalle. Hanno qualcosa da dirsi, non hanno più niente da dirsi.

Come un regista onnipresente, che agice però con discrezione dietro le quinte, la luce ricopre un ruolo assolutamente indispensabile. Nei teatrini regna sovrana un’illuminazione sapiente che  crea  atmosfera, che pervade, evidenzia, lascia all’oscuro, getta ombre, evoca memorie. Tutte le situazioni rimangono in sospeso, piene di energia emotiva e quindi aperte a più possibilità. Sembrano delle istantanee, per usare un termine fotografico, perché colgono un particolare momento, un istante rivelatore di una situazione che è però difficilmente collocabile sulla linea del tempo. Mancano le coordinate. Non si sa se siamo ancora all’inizio o già alla fine di una storia della quale conosciamo comunque  un frammento solo.
L’incertezza cronologica crea l’impressione che da un momento all’altro qualcosa di tremendo, di imprevedibile possa accadere, che possa consumarsi un’insanabile rottura, che un attimo speciale finisca nell’oblio dell’indifferenza, che quello che potrebbe diventare un incontro segua invece la traiettoria della separazione. Occasioni mancate, amanti illusi e delusi, brevi vedute su altre panoramiche e altri orizzonti. Cose normalissime, quotidiane appunto. Cose che non pre/occupano i nostri pensieri, perché la vita quotidiana, anziché rivelarsi come inesauribile fonte di drammi quotidiani, ci sembra, distratti come siamo, una serie infinita di abitudini banali. Nelle opere di Demetz invece, l’ordinario acquista un alone di mistero ominoso, enfatizzato anche dal fatto che la scena può essere osservata da più punti di vista, rendendo visibile ciò che altrimenti rimarrebbe nascosto oppure nascondendo improvvisamente ciò che prima era visibile o addirittura sollecitando uno sforzo creativo per immaginare quel che è fuori dal nostro campo visivo. 
E, prendendosi gioco delle nostre consolidate certezze, l’artista coglie lo speciale nell’ordinario, restituisce la tensione poetica al gesto semplice, evoca la complessità del vivere con le sue incognite e variabili. Demetz, di fronte ai suoi teatrini con il sipario alzato, ci costringe a cambiare posizione e quindi anche punto di vista, per vedere meglio, per vedere di più. Così quel che vediamo, come quello che ci sfugge, facendosi sentire come mancanza, richiama il nostro vissuto, il dentro e il fuori si saldano in uno sguardo che riconosce all’attimo il potenziale di palesarsi come epifania. La prospettiva guida lo sguardo verso uno scambio dialettico fra osservazione e introspezione, punto di partenza e punto d’arrivo di ogni relazione.

Iliana Borrillo
Cento (FE) 2008
 

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